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11 Lug

Come affrontiamo la malattia è già la cura (prima parte)

La metafora dello scivolino: impariamo dai bambini a superare la paura

Sono sicuro che tutti abbiamo avuto prima o poi l’occasione fortunata di accompagnare un bimbo al parco, un figlio, un nipote, un giovane amico che ci sia stato affidato per la necessità di un pomeriggio.
Il parco è un posto magico, è probabilmente il luogo dove tutti noi da bambini abbiamo fatto le prime amicizie, i primi incontri e i primi scontri, il luogo in cui ci siamo guardati crescere con il passar del tempo misurandoci con le dimensioni dei giochi e degli spazi.
Proprio in questi giorni ho provato a ricordare i miei momenti al parco, le mie avventure, il mio giocare, ma davvero non è facile tornare lì con la memoria e forse gli anni trascorsi sono tristemente ormai troppi! Ho però la fortuna di avere la mia piccola aiutante da osservare per imparare, per capire, per domandarmi ancora: ho guardato mia figlia, lì seduto su quella panchina un po’ all’ombra, l’ho guardata giocare con gli altri bambini del quartiere, li ho visti correre e fermarsi a gruppetti intorno ai diversi giochi sparsi nel parco, posizionati proprio perché tutto possa essere visibile e nulla possa passare inosservato all’occhio di chi sta vigilando, un po’ come la sensazione di essere al centro dell’universo e poter avere tutto a portata di sguardo. Un gioco in particolare ha però attirato la mia attenzione, o meglio, forse ciò che mi ha attratto è stato il comportamento dei bimbi alle prese con questo specifico gioco: sto parlando dello scivolo, o “scivolino” come lo chiamiamo noi in questa parte di Toscana.
Ecco, adesso non vorrei passare per pazzo, liberi di pensarlo ci mancherebbe, ma ritengo che lo scivolo rappresenti davvero una metafora della vitasoprattutto osservando le diverse modalità di approccio dei bambini nelle varie fasi di crescita.
Ne esistono di tantissimi tipi (sia di scivoli sia di bambini in effetti), hanno dimensioni diverse, colori diversi, a volte forme diverse ma un unico obiettivo comune, almeno per chi ha brevettato l’idea… salire e poi scendere e di nuovo salire e poi scendere ancora! La cosa affascinante in questa routine, di per sé apparentemente ripetitiva, sono le diverse modalità utilizzate per raggiungere il medesimo obiettivo: ogni bambino lo fa a modo suo, in base alle proprie capacità, al proprio vissuto, all’età, all’esperienza, al bisogno di mostrare o dimostrare.
I piccolissimi si arrampicano, con fatica, cercano sostegno, titubanti affrontano gli scalini con mani e piedi in una interminabile ascesa infinita verso il cielo; quelli leggermente più grandicelli invece con le mani appoggiate sul corrimano strette strette, le nocche quasi bianche, lo sguardo prima in alto a definire la meta e poi subito in basso, ai propri piedi da guidare verso il nuovo scalino in una alternanza di sicurezza e instabilità, di paura e sfida.
E arrivati in cima alla salita, in quel piccolo pezzo di infinito che separa la soddisfazione della meta raggiunta dall’emozione della veloce discesa, cercano gli occhi di chi ha osservato per riconoscere in essi l’ammirazione, osservano il mondo fieri come chi è riuscito in una grande impresa, guardano i piccoli amici che ancora non sanno salire e si sentono grandi, migliori, esempio!
I ragazzini più grandi, con il sorriso sornione spintonano per salire, due gradini alla volta, al volo, quasi senza reggersi, il tragitto è breve, l’obiettivo chiaro, non servono più conferme, sanno di essere bravi…
E adesso? Da quassù sul tetto del mondo cosa si deve fare? Mettersi a sedere su quel pezzo di latta, bollente o gelato a seconda delle stagioni, e lasciarsi andare giù, senza paura, per qualche interminabile secondo! Anche in questa seconda fase di gioco però le cose cambiano ancora, l’età la fa da padrona e orienta verso il rischio, verso lo stupore… ci si butta a testa in giù, sdraiati al contrario, in piedi come su un surf oppure seduti si, ma senza tenersi, con i piedi raccolti a scivolare e gridando forte come un urlo di battaglia, come un grido di felicità… non vi sembra forse di poter paragonare tutta questa varietà alla vita? Non richiama alla vostra mente l’alternarsi delle possibilità con cui affrontiamo l’esistenza, il nostro essere in salute o malati in base alla nostra predisposizione, all’esperienza, al nostro bisogno di essere accompagnati, osservati, accolti, aiutati, oppure sfidanti, aggressivi, audaci, coraggiosi, orientati all’obiettivo attraversando qualsiasi tipo di difficoltà, facendo affidamento sui propri mezzi, sulla propria forza interiore, sulla propria consapevolezza, senza sentirsi vincolati e oppressi dai possibili rischi, dall’ignoto… perché mentre le difficoltà aumentano, aumentano anche le nostre capacità, i nostri strumenti, quello che la nostra evoluzione ci rende disponibile!
E allora procedo nella metafora dello scivolo… ad un certo punto il divertimento finisce, salire dalle scale e scendere sulla latta non diverte più, non interessa più, tutto sembra troppo semplice, troppo scontato, troppo banale come la vita quando tutto è ripetitivo e le cose perdono di interesse per chi le vede scorrere sempre uguali ogni giorno.
E allora dopo l’ultima discesa ci si gira a guardare il gioco, lo si osserva da un diverso punto di vista, si cerca la sfida, si cerca l’emozione, si pensa a quello che ancora si potrebbe fare prima di arrendersi all’ovvio, allo scontato, al sempre uguale, quindi ci si avvicina alla discesa appena affrontata, gli occhi al pezzo di latta che ci hanno insegnato esser fatto per scendere, le mani si appoggiano salde, un piede a cercare il contatto con il metallo, l’aderenza, e poco alla volta le braccia ritrovano la forza necessaria e tirano su un corpo che aveva perso la voglia di scoprire, che si lasciava solo scivolare e si ritrova l’entusiasmo per affrontare ancora una volta lo scivolo e la vita da un’altra angolatura! Interviene l’istinto, la natura ci domina, il coraggio ci guida… chi dice che non si possa salire al contrario, che non si possano affrontare le difficoltà in modo diverso se il nostro corpo ne ha la possibilità?
A questo punto io che sono stato seduto ad osservare su quella panchina all’ombra mi alzo di scatto, mi avvicino di corsa… interrompo il gioco, le mie braccia a bloccare per proteggere, difendere, per evitare che l’osare diventi di esempio “negativo” per altri… quanto sono stupidi gli adulti a volte, quanto non sanno rendersi conto che sperimentare e rischiare è scoprire un nuovo modo di ragionare che potrebbe essere la spinta e l’unica strada per imparare a superare in futuro le difficoltà della vita! Ogni volta che si vuole ottenere qualcosa, come già vi ho scritto nei capitoli precedenti e come ci insegnano i taosti, bisogna iniziare dal suo opposto e solo allora “ciò che è tortuoso diventa dritto, ciò che è vuoto diventa pieno, ciò che è consumato diventa nuovo”, cioè solo allora, nell’integrazione, tutto diventa chiaro e più comprensibile.
Dovremmo quindi imparare solo ad affiancare, annullare le nostre paure e sostenere la loro scelta con la nostra presenza, appoggiare la mano sul loro piccolo fondoschiena, non a spingere inutilmente sostituendoci al loro sforzo (forse è vero che in questo modo veniamo “presi per il culo” fin da bambini!), ma solo ad accompagnare con una rassicurante presenza verso quella che hanno scelto come via.
E dovremmo imparare di nuovo da loro, dovremmo essere capaci di cambiare punto di vista, di accettare anche quello che a volte è tanto difficilmente spiegabile o non lo è affatto, fidandoci e affidandoci, credendo nel miracolo che accade ogni giorno e che è proprio quello della possibilità di modificare la nostra esistenza affrontandola talvolta con occhi nuovi.
“Non bloccare i sintomi con cui si esprime il tuo organismo perchè sono la manifestazione esterna di un suo lavoro di comprensione interna. Ciò che non vediamo è sempre più importante di quello che vediamo”. (Roberto Gava)

Biznes

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