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11 Mag

Nulla può guarire senza prima essere stato malato

Il cambiamento non è mai doloroso, solo la resistenza al cambiamento lo è

Credo essenziale per poter parlare di “guarigione”, che è un po’ il filo conduttore che ritroverete nei miei libri, partire dal presupposto, piuttosto scontato peraltro, che nulla possa guarire senza prima essere stato malato.
Sicuramente è vero, ma vi vorrei proporre un piccolo esercizio per dimostrare che forse stiamo minimizzando e che in realtà c’è poco di scontato nei concetti di malattia e salute!
Per prima cosa mi piacerebbe che vi fermaste ad ascoltarvi, a pensare a voi stessi e a provare a collocarvi all’interno di uno dei due gruppi di persone in cui al giorno d’oggi è diventato naturale dividere il genere umano: i sani e i malati. A quale delle due categorie sentite di appartenere in questo momento? Cosa intendi per salute? Cosa intendi per malattia?
Le risposte che mediamente ottengo sono: “Santo cielo, malattia, certo che so cos’è la malattia, sono stato malato tante volte, ma adesso, insomma… essere malati è non star bene…” e “la salute, cosa vuoi che sia? Certamente è non essere malati!”. Diciamocelo onestamente, non è semplice definire questi concetti se non per contrapposizione, l’uno come l’opposto dell’altro. In effetti se domandassimo ad una persona sana che cosa significhi essere malato, o viceversa ad un malato l’essere sano, come potrebbe sul momento conoscere la risposta? Al massimo potrebbe cercare nel ricordo e dire che presumibilmente è l’opposto dello stato in cui si trova lui adesso. Anche in questo caso però la risposta non sarebbe completamente corretta perché la percezione dello stato di salute o di malattia è davvero molto personale e non generalizzabile e peraltro può variare nell’arco della vita di uno stesso individuo milioni di volte.
Personalmente sono invece più propenso a credere che in verità l’una (la malattia) sia impossibilitata ad esistere senza l’altra (la salute), così come vale per tutte le cose che si compensano.
La questione fondamentale rimane secondo me che uno stato di benessere duraturo o continuo è cosa particolarmente difficile e la malattia è il modo che il corpo ha per riportare la nostra attenzione su di sé: avete presente le nuove strisce sonore, quelle che si trovano in autostrada e che ti allertano quando per qualche motivo hai abbandonato la tua corsia andando pericolosamente in quella opposta? Ecco la malattia è un po’ questo, un richiamo, un avvertimento a prestare maggior attenzione. Così come le strisce diventano assolutamente inutili se si percorre la corsia continuando a calcarle e abituandoci alle sollecitazioni e al rumore, correndo il rischio di rovinare l’auto o ancora peggio di oltrepassarle provocando un incidente, così non possiamo vivere a lungo in uno stato di malessere che si protrae, né tanto meno rischiare di non prestare attenzione a quello che accade al nostro corpo in tutto quel lasso di tempo.
“Malattia è in generale qualsiasi stato patologico o alterazione dell’organismo o di un suo organo dal punto di vista anatomico o funzionale”. La malattia può quindi essere fisica in senso stretto ma anche psicologica, oppure può esprimersi sotto forma di disagio di tipo sociale o relazionale.
Ma vi siete mai chiesti da cosa derivi etimologicamente la parola “malattia”? Deriva dal latino “mala-actio” e quindi rimanda ad un malessere dovuto essenzialmente ad una mala-azione, ad una azione sbagliata compiuta dal soggetto stesso o dalla sua mente con influenze più o meno dirette sulla parte fisica (mi sembra opportuno ricordarvi che, purtroppo, anche nella malattia siamo artefici del nostro “destino”). Si tratta quindi non necessariamente, o non solo, di malattia oggettiva del corpo, ma anche, e spesso solo, di malattia come esperienza soggettiva di perdita della salute e del benessere. Perdita probabilmente causata in maniera inconscia, ci mancherebbe, e come tale subita e vissuta, ma che, derivando da una mala-azione del soggetto, potrebbe essere invece conseguenza di un atto “involontariamente volontario” indirizzato o guidato dal nostro subconscio che sa mettere in campo ogni risorsa possibile pur di arrivare ad ottenere il NOSTRO obiettivo… e di questo argomento parleremo lungamente altrove!
Per chi volesse approfondire il concetto di malattia secondo i due modelli principali, quello ontologico e quello funzionale o relazionale, vi rimando al capitolo 1 di “… e questo è quanto.”
Molto sinteticamente, il modello ontologico considera la malattia come qualcosa di autonomo ed esogeno (esterno, altro…) rispetto all’organismo. Mira ad identificarla e a localizzarla in un punto preciso del corpo, ne ricerca le cause, ne prevede l’evoluzione temporale, si esprime in termini di prognosi e, in generale, fa prevalere il concetto di organo singolo, circoscritto, su quello di organismo nel suo insieme. Il modello relazionale, al contrario, considera la malattia come endogena, reattiva (e cioè che si sviluppa in reazione ad uno stato di malessere) e complessivamente benefica. La valuta in senso dinamico e ritiene che sia il risultato di situazioni di armonia e di disarmonia, di equilibrio e di non equilibrio, dunque, una reazione di difesa dell’organismo che cerca di ritrovare il proprio centro. Questo tipo di approccio responsabilizza il paziente perché gli impedisce di attribuire unicamente a cause esterne i motivi della sua sofferenza o delle sue sensazioni di disagio, lo invita ad intraprendere un cammino introspettivo, a riconoscere dentro di sé l’origine della malattia e quindi ad attivarsi per conquistare lo stato di salute senza delegare completamente a cause esterne la responsabilità dell’essersi ammalato e senza delegare completamente al medico la responsabilità della propria guarigione e della scelta della terapia. Il paziente trattato con questo modello è portato ad assumere un ruolo attivo nel proprio processo di cura e guarigione, a prendere coscienza di ciò che avviene nella sua mente e nel suo corpo, a riconoscere nei disturbi e nei sintomi dei segnali di disagio più profondo. Obiettivo finale di chi si avvicina al paziente con questo approccio è naturalmente quello di indurre la persona a modificare i propri comportamenti per poter andare alla ricerca di un nuovo stato di benessere…
E voi quale credete sia il mio approccio terapeutico nei confronti di chi si sdraia sul mio lettino? Sono abbastanza chiaro nel mio intento? Spero non ci siano più dubbi ormai e, non vi nego, che questo è anche quello che vorrei aspettarmi da tutti voi che venite a cercarmi in studio! Senza naturalmente voler imporre a nessuno il mio metodo di “cura” (nel senso più ampio del “prendermi cura”) vorrei poter credere che ciascuno di voi, da oggi, si avvicinerà a me o a qualsiasi figura professionale medica seguendo l’approccio relazionale e cercando nel proprio terapeuta questa risonanza (non nel senso di “risonanza magnetica nucleare” che ormai non si nega a nessuno!!!) con l’idea che questo processo interattivo possa assolutamente sostenere il paziente nel suo percorso di autoguarigione, favorendo e amplificando la sua volontaria predisposizione a rispondere al trattamento.

Biznes

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